Richieste sempre più pressanti da parte di chi produce nella filiera italiana della canapa industriale
A meno di un anno dall’entrata in vigore della legge 242 sulla promozione della filiera della canapa, urge una prima riflessione sul settore. Dopo interviste, incontri, ricerche, è inevitabile mettere in evidenza nodi problematici e richieste sempre più pressanti da parte di chi produce nella filiera italiana della canapa industriale.
Prima di tutto lo stato di fatto all’oggi: l‘estrema frammentazione e la forte immaturità del settore.
Prevale la “polverizzazione” delle rappresentanze (se così si possono definire) e dei produttori in gran parte di piccola taglia impossibilitati per loro natura nel programmare investimenti strategici, in ricerca, commercializzazione, sperimentazione. La piccola artigianalità deve esserci, ma non ci si può fermare a questo.
Non c’è dubbio, sono tutti aspetti di forte debolezza traducibili in una mancanza di forza “sindacale”, di interfacciamento autorevole con le amministrazioni locali e nazionali.
La quasi assente coesione del settore si ripercuote anche nel non comunicare reciprocamente tecniche, processi, suggerimenti validi. Vero è che nel fare impresa ognuno vuole custodire i propri segreti, le proprie scoperte e le informazioni ottenute dopo tanto studio e ricerca. Ma di questo passo si rimarrà nella sopravvivenza, il che si tradurrà nel rappresentare ancora e sempre una fetta marginale del comparto agricolo e produttivo del Paese.
Conseguenza della situazione attuale? Si rimane all’angolo, fra le non-priorità. Si resta in secondo piano.
I produttori, trasformatori, commercianti della canapa industriale devono fare comunità.
Questo desiderio di voce unica, di condivisione, di fare fronte forte e autorevole, è apparso ormai in quasi tutti i colloqui che Canapa Oggi ha avuto con i canapicoltori, con le cooperative, con i venditori. Il tessuto produttivo della canapa italiana non può assumere le sembianze separate e multicolori di un costume da Arlecchino, con l’aggravante che i singoli pezzi non sono ancora stati cuciti in un unico abito.
Occorre ben altro.
Le associazioni territoriali hanno avuto un ruolo fondamentale organizzando al meglio un tessuto produttivo… in erba quando il quadro normativo era abbozzato, improvvisato e frammentato.
Questo compito lo avranno, diverso, anche in futuro, ma con l’attuale legislazione nazionale che riconosce dignità e appoggio alla filiera della canapa industriale occorre un salto di qualità ugualmente nazionale.
In una scacchiera ci sono solo due schieramenti, i bianchi e i neri. Non sia mai che una delle due squadre non abbia una strategia e uno scopo unitario perché non vincerà mai e non arriverà mai da nessuna parte, la filiera italiana rischierebbe di rimanere un miraggio e i suoi protagonisti relegati alle piccole manifestazioni di paese senza una prospettiva più grande raggiungibile e senza la possibilità di incidere, come deve essere fatto, in un corretto completamento del processo legislativo.
Questa suddivisione del settore fa sì che sussista una gigantesca criticità anche sul fronte della preparazione di chi si accosta per la prima volta alla canapa o di chi ci sta tentando da una, due o tre stagioni perdendo denaro grazie a coltivazioni insoddisfacenti dal punto di vista produttivo e di reddito.
Spesso non si sa bene quando seminare, non si conoscono le conseguenze di una semina primaverile o tardiva, che occorrerebbe una preventiva constatazione delle temperatura dei suoli, conoscere la presenza di acqua nel terreno oltre a tutta una serie di elementi di base. Spesso non si correla l’obiettivo commerciale finale con la scelta della giusta semente e varietà di cannabis sativa. Ancora più spesso non si parte da un preliminare studio del mercato.
Per non parlare poi della domanda fra le più gettonate (e disarmanti) apparse anche sui social network: “Quando raccolgo?”.
Bene hanno fatto e fanno quelle associazioni territoriali, quelle cooperative organizzate nella formazione oltre che nella produzione e quelle rappresentanze che travalicano alcuni confini regionali: tentano di diffondere conoscenza. Ma avviene a ranghi sparsi, in piccoli rivoli non sempre efficienti o professionali.
Per forza di cose anche questo non può bastare.
Si passa poi a problemi tecnici, come all’utilizzo degli steli, delle canne della pianta e quindi della fibra. L’esistenza di due soli punti di lavorazione in Italia a esclusione di quelli piccolissimi e/o artigianali appannaggio di poche realtà sparse, rende impossibile far guadagnare gli agricoltori anche su questo fronte.
Non sono pochi coloro che, visto anche il basso valore commerciale di questa parte di pianta, neppure ci si mettono a trasportarla verso lontani impianti: arrivano a bruciare tutto sul campo dopo la trebbiatura.
Uno fra i tanti messaggi giunti a Canapa Oggi trasmetteva questa considerazione: “L’agricoltore non semina canapa se non c’è un impianto di prima trasformazione in zona vicina in un raggio di 100 km. Bisogna provvedere prima che cominci la nuova stagione 2018“.
Le regioni hanno levato gran voce per chiedere di poter allestire impianti produttivi di canapa terapeutica avendo quindi grande sensibilità verso i malati e verso chi ne ha necessità mediche. Dovrebbero usare egual forza per organizzarsi con grandi impianti di trasformazione per le fibre dimostrando uguale sensibilità verso il mondo agricolo e non solo.
Naturalmente non c’è bisogno di fare un impianto per regione, anche se nel Lazio se ne stanno immaginando due.
Vedremo cosa frutterà tutto questo e, soprattutto, se riuscirà a dare il giusto valore a una parte così utile della canapa. Basta pensare alla bioedilizia, alla biotecnologia, al ritorno della tradizione dei tessuti e allo studio di nuovi materiali.
Proprio scrivendo di steli viene in mente un altro concetto, quello sull’utilizzo dell’intera pianta. Qui le voci si fanno più fitte, sempre quelle dei canapicoltori, dai più progrediti e grandi ai più piccoli: per la produzione e sbocchi commerciali, la pianta deve essere considerata nella sua interezza. Nel mondo non esistono altre colture che gli agricoltori fanno crescere e che devono buttare in parte.
Il vuoto normativo sulle infiorescenze, ha scatenato la nascita dell’iniziativa Easy Joint e di un corollario di nuovi marchi che hanno fiutato l’affare del momento.
Non ci devono essere lacune, punti non irregimentati secondo legge (nella 242 le infiorescenze sono nel limbo del “florovivaismo”), bisogna dare sicurezza a controllati e controllori e, soprattutto, evitare di lasciare spazio a possibili pasticci. Ma fesserie se ne possono fare anche progettando leggi e decreti.
La proposta di decreto sugli alimenti da canapa arrivata dal ministro alla Salute Lorenzin è aspramente criticata non solo per l’assurdamente basso tenore di Thc stabilito nella bozza, ma anche perché solo semi, farina e olio sono considerati come alimenti (e il fiore alimentare di canapa industriale per tisane, infusi, spezia, birra e altro?).
Tra raggruppamenti spontanei di produttori/venditori, tra “piazze virtuali” molto ben organizzate e con ricca documentazione, ecco Canapa Sativa Italia su Facebook che vede in Andrea Spurio uno degli amministratori del gruppo, lui membro della rappresentanza maceratese di una grande confederazione agricola nazionale: grazie a un excursus fra regolamenti, norme e un’ampia raccolta di documenti, nella pagina si sta dando forma a una sorta di petizione per dettare/suggerire integrazioni necessarie in materia, comprese le infiorescenze dove oggi vige la più totale confusione.
Nella possibile petizione in via di redazione si chiede, per esempio, l’inserimento nel decreto ministeriale del documento (risposta a un quesito) risalente al 1998 compilato dalla Commissione europea – Direttorato Generale III Industry, Comittee for Foodstuffs – a questo link l’attuale sezione della Commissione (fotoriproduzione di quel documento qui in basso).
La posizione dell’organo europeo si pronunciò indicando che gli stessi fiori e parti della Cannabis Sativa L. usati per la produzione della birra “sono da considerarsi ingredienti e non additivi se adoperati come i fiori di luppolo” quindi finalmente “normalizzati” ed esclusi dal regolamento EC 258/97 (che norma l’utilizzo degli additivi alimentari intesi come “qualsiasi sostanza normalmente non consumata come alimento, in quanto tale, e non utilizzata come ingrediente tipico degli alimenti, indipendentemente dal fatto di avere un valore nutritivo“).
Fra le altre cose, si chiede che oltre a semi, farine, olio e integratori, siano considerati come alimenti le altre parti della pianta, “folium, gemma, cortex, lignum, radix, fructus, resina, rhizoma, summitas”.
Anche Davide Galvagno, di Salute Sativa ribatte su questo punto: “Far riconoscere il fiore come alimento o come ingrediente alimentare è il primo passo. Senza dimenticare l’inserimento della canapa fra le piante officinali”. Altra zona buia sono l’utilizzo nella cosmetica e il fitoterapico (abbreviando, l’utilizzo di canapa o estratti di questa pianta per curare malattie o per mantenere un equilibrio-benessere psicofisico), punti dove occorre chiarezza regolamentare.
Tornando alla bozza ministeriale, questa è criticatissima anche per il suo punto 7.
In breve, questo settimo capitolo evidenzia che tutti i paletti inseriti per irregimentare la produzione alimentare italiana da canapa (non solo la fissazione del livello massimo di Thc), “… non si applicano ai prodotti legalmente fabbricati e/o commercializzati in altro stato membro dell’Unione europea on in Turchia…” (il resto del punto 7 lo si può leggere nell’immagine qui sotto).
In breve, si prefigura un’invasione di prodotti non italiani che nella fase produttiva potrebbero aver avuto vita ben più facile, quindi costi ben più bassi e, magari, anche tenori diversi dei principi attivi. In parole povere, la ricchezza del Made in Italy negli alimenti da canapa potrebbe andarsi a far fottere (i lettori, se possono, scusino l’espressione poco giornalistica).
Si ha la concreta impressione che il legislatore abbia le idee sempre parecchio confuse.
Che i prodotti non italiani debbano garantire “un livello equivalente di protezione della salute”, che debbano rifarsi alle norme che riguardano l’Efta e lo spazio economico europeo (SEE), non contribuisce certo a rendere egualitaria la pressione che subiranno le aziende italiane rispetto a quelle estere… o turche o di altri luoghi, quelle che venderanno (tanto) nel nostro mercato.
A trattare con il ministero anche su questo punto chi è andato e chi ci andrà? Alcune associazioni, quelle che sono state informate e/o hanno contatti politici attivi.
E qui si rientra al punto iniziale dell’articolo, la frammentazione del comparto, quindi la perdita di efficacia, tranne per coloro che riusciranno a “prenotare” una sedia al tavolo delle contrattazioni.
La storia non finisce qui. Per evitare di trasformare questo articolo in un trattato, si rimanda a una “seconda puntata”, un nuovo articolo che potrebbe contenere anche suggerimenti, osservazioni, precisazioni e obiezioni di chi avrà letto questa prima riflessione.
A presto rileggerci.
Gli unici interlocutori politici realmente interessati e disponibili (che fra l’altro si sono battuti anche per la legalizzazione della Canapa Indica oltre per una seria ed efficace promozione della filiera della Canapa Sativa) sono i parlamentari del Movimento Cinque Stelle. Sono gli unici sui quali si può fare affidamento. Se solo avessero la maggioranza di governo tutto ciò di cui si parla in questo bellissimo articolo potrebbe diventare realtà, gli altri partiti sono solo servi di coloro i quali hanno tutto l’interesse affinchè la produzione della Canapa resti solo un miraggio!!!