Federcanapa e la necessità di una svolta della politica nazionale sulla Canapa: gli interventi al convegno
Secondo articolo sull’incontro voluto da Federcanapa a Roma, il 4 febbraio 2020, Palazzo San Macuto-Camera dei Deputati, per un approfondimento sulla situazione del settore e sulle urgenze per farlo decollare senza le storture dell’attuale normativa così equivoca e lacunosa. Federcanapa e la necessità di una svolta della politica nazionale sulla Canapa, questo il nodo focale del convegno (link al primo articolo sull’evento romano).
In questo secondo articolo sono presenti gli interventi (o loro sintesi) pronunciati dai relatori.
Prima però una revisione rispetto al precedente articolo sul convegno. Riccardo Magi, deputato del gruppo Misto – Centro Democratico-Radicali Italiani e +Europa, ha proseguito a raccogliere consensi e sottoscrittori tra i parlamentari per una proposta di legge, la n° 2309, mirata a esplicitare e rendere leciti i punti oscuri della normativa sulla canapa e a rendere lecito il commercio delle infiorescenze con THC a concentrazione inferiore allo 0,5%.
La proposta tocca alcuni punti della Legge 242 del 2016 sulla filiera della Canapa e del Testo unico in materia di disciplina degli stupefacenti (309 del 1990).
Al 12 febbraio 2020 le firme apposte sulla bozza della nuova legge erano oltre 60.
Giuseppe L’Abbate, sottosegretario al ministero delle Politiche agricole alimentari e forestali
La coltura della Canapa scomparsa per decenni poi, finalmente, ripartita in Italia come Canapa industriale, “ma in tutto questo sono riemerse criticità che dovranno essere riaffrontate in un tavolo sulla filiera che dovrà essere affrontato al ministero. Al momento non sono ancora state distribuite le deleghe. Spero di poter seguire il settore della canapa, vorrei proprio avviare il tavolo canapa per approfondire tutte le questioni del settore separando le questioni di diretta competenza del dicastero alle Politiche agricole dalle altre che andranno esaminate con gli altri ministeri coinvolti”.
“Crediamo molto in questa coltura – ha detto il sottosegretario L’Abbate – Moltissimi i risvolti e le applicazioni della canapa in molti settori. Quando nella scorsa legislatura approvammo la legge e andavamo in giro nei territori a raccontare questo traguardo raggiunto in commissione all’unanimità, dicevo sempre che quello della Canapa è definito dagli statunitensi come settore domino in quanto in cascata crea delle economie in tanti comparti, alimentare, tessile e tanti altri”.
“L’impegno del ministero dell’Agricoltura e del governo sarà massimo. Sono a disposizione di qualsiasi incontro e confronto. Al Parlamento si è lavorato e sono stati presentati emendamenti, ma ritengo che stando di fronte a una coltura che si scontra un po’ con ideologie, credo che la strada del confronto, il sedersi intorno a un tavolo e ragionare punto per punto, ritengo sia la strada più giusta per superare le criticità”.
“Credo che i tempi siano maturi dal punto di vista culturale per superare alcuni blocchi che, per forza di cose dopo cinquant’anni di martellamento, hanno creato una barriera difficile da demolire. Grazie alla spinta di associazioni, delle imprese agricole, è arrivato il momento di fare passi avanti. Ho tenuto un incontro anche con il professore Grassi al ministero della Salute per cercare di superare il problema legato alla produzione delle talee con il progetto del Crea: al dicastero stanno vagliando le proposte presentate”.
Giuseppe Cannazza del CNR Nanotec e del Dipartimento di Scienze della Vita di Unimore-Università degli Stidi di Modena e Reggio Emilia
Come funziona il nostro organismo? “Ci sono diversi interruttori di varie forme, come nei giochi dei bambini con aperture di varie forme dove poter infilare il pezzo corrispondente. È la stessa cosa: quei pezzi quelle sostanze che entrano dentro questi interruttori biologici attivano dei circuiti in cui si ha una risposta. Tutte le molecole che vanno ad attivare questi interruttori dei cannabinoidi, si chiamano appunto cannabinoidi. si distinguono in tre grosse categorie: fitocannabinoidi, endocannabinoidi e cannabinoidi sintetici“.
“I fitocannabinoidi sono i cannabinoidi prodotti dalle piante, in particolare dalla cannabis – ha illustrato Cannazza – Sono molecole prodotte dalla pianta e che attivano quei particolari recettori cellulari. Ma la natura non gioca a caso: questi interruttori nel nostro organismo ci sono per qualche motivo. Esistono perché noi stessi, nel nostro organismo, produciamo dei cannabinoidi. Questi si chiamano endocannabinoidi, cannabinoidi endogeni. Vanno ad attivare gli stessi recettori dei fitocannabinoidi producendo, in qualche modo, la sensazione farmacologica. Tra questi è importante l’Anandamide individuato nel 1992 grazie al professore Raphael Mechoulam dell’Università di Gerusalemme, grande padre della clinica sui cannabinoidi”
(ndR: l’Anandamide, anche nel cioccolato ma in concentrazioni bassissime – stimola percezioni sensoriali inducendo euforia e senso di soddisfazione per periodi limitati in quanto scomposto facilmente dallo stesso organismo – non crea dipendenza, oltretutto un uomo di 60 kg dovrebbe ingerire circa 10 kg di cioccolato al giorno avvicinarsi a subire questo effetto – potrebbe avere dei benefici nel trattamento di numerosi disturbi mentali e fisici e ultimi studi ne stanno analizzando gli effetti contro alcune forme tumorali bloccando la proliferazione di cellule cancerose)“.
“I Cannabinoidi sintetici, non prodotti dalla pianta, non dal nostro organismo, ma sono prodotti in laboratorio da noi chimici farmaceutici; riconosciamo la molecola base, tipo il THC e cominciamo a modificarlo chimicamente per ottenere composti sempre più attivi. Così invece di somministrarne 10 milligrammi per avere un effetto, ne basterà uno solo. Sono molecole modellate su fitocannabinoidi, prodotte in laboratorio per essere più attive. Da qui prendono vita anche le droghe, la spice e le altre, estremamente attive e molto potenti, ma nulla hanno a che vedere con le molecole naturali”.
“Non soffermandoci sulle innumerevoli proprietà benefiche della pianta, solo una frase mi preme citare, di Henry Ford: Perché consumare foreste che hanno impiegato secoli per crescere e miniere che hanno avuto bisogno di intere ere geologiche per stabilirsi, se possiamo ottenere l’equivalente delle foreste e dei prodotti minerari dall’annuale crescita dei campi di Canapa? Quindi, come adesso fa la Canapa a stare fuori da questa era di nuova rivoluzione? Senza poi contare un altro punto cruciale tralasciando i fitocannabinoidi: la Canapa come industria farmaceutica vegetale”.
E i fitocannabinoidi più importanti, anche perché più presenti, sono il CBD e il THC, il primo senza alcun effetto stupefacente come sottolineato anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Quella che è definita col nome Canapa-Canapone ad alto cpntenuto di CBD, si distingue dal nome Cannabis in generale perché ha concentrazione bassissima di THC, al di sotto dello 0,2 per cento: destinazione da fare in terminologia per non prestare il fianco a confusioni non dovute e malevole con la marijuana e similari.
“Per la definizione di Cannabis farmaceutica è imprescindibile la standardizzazione del principio attivo, come si fa per ogni altro farmaco che ha concentrazioni indicate nelle confezioni che devono corrispondere esattamente nel prodotto: se vogliamo considerare l’infiorescenza della Cannabis come farmaco, è fondamentale la standardizzazione almeno per le concentrazioni di THC e CBD, come dice la monografia tedesca uscita nel 2016 che ha valore su tutto il territorio europeo, quindi anche su quello italiano”.
“Al suo interno questa materia prima destinata alla farmaceutica non deve contenere metalli pesanti, niente aflatossine, deve avere un preciso contenuto in umidità e tanto altro. Solo questa è cannabis medicinale. Il dottor Grassi del Crea ha fatto un ottimo lavoro, i botanici sono riusciti in una precisa standardizzazione, lì producono le varietà di Cannabis, principalmente le FM1 e FM2, utilizzate come farmaci sul territorio nazionale, prodotte dal Crea e coltivate dallo Stabilimento Chimico Farmaceutico Militare di Firenze”.
“Il problema sta poi nell’estrazione. Quando, a seconda del metodo, io estraggo, cambio anche la composizione perché io possa estrarre più o meno cannabinoidi. Questo è un grosso problema che si sta affrontando con il ministero della Salute cercando di standardizzare il metodo di estrazione”.
Nel gruppo di ricerca del dottor Cannazza stanno comunque guardando “tridimensionalmente”, come definito dal professore, “con il terzo occhio”, a tutto l’universo fitocannabinoidi della Cannabis e ne hanno trovati di nuovi. Due di questi, il THCP-Tetraidrocannaphorolo e il CBDP-Cannabidiphorolo estratti dalla cannabis medicinale FM2: il primo, in presenza estremamente bassa nella FM2, ha un’interazione con i recettori per i cannabinoidi 33 volte superiore rispetto al THC, molto attivo come potente analgesico; il secondo non ha ancora rivelato pienamente la sua azione. il tutto sulla rivista Scientific Reports, rivelando nuove possibili vie per la comprensione dell’efficacia terapeutica della cannabis, quindi nella terapia del dolore, per il trattamento dell’epilessia o quello di ansia e depressione.
“Rimane moltissimo da scoprire nella chimica farmaceutica della Cannabis – ha rimarcato Cannazza – Ma il trattato internazionale contro le droghe, la Single Convention on Narcotic Drugs del 1961, la Cannabis è inserita in tabella 4, insieme all’eroina, quindi materia con scarso o nessun valore medico, oltre che altamente pericolosa. L’OMS, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, sta dando precise raccomandazioni avviando il processo di cambiamento della Single Convention. Entro marzo si capirà se queste raccomandazioni saranno accettate o meno. L’OMS ha detto: togliere la Cannabis dalla tabella 4, inserendola nella 1 dando valore medico alla pianta, al pari della morfina; preparazioni a base di Cannabis contenente principalmente CBD con meno di 0,2% di THC devono restare fuori dalle regolamentazioni degli stupefacenti. Si aprirebbe un mondo a livello globale, stiamo parlando di Nazioni Unite, si parla delle sorti globali della Canapa”.
Lorenza Romanese, direttore Eiha, l’European Industrial Hemp Association-Associazione europea della canapa industriale
Ehia, associazione fondata nel 2005, membri appartenenti e associati a copertura di 26 paesi membri dell’Europa, più relazioni aperte con paesi extraeuropei grazie anche ad otto associazioni partner, rappresenta più del 70 per cento del settore Canapa industriale del Vecchio Continente.
“Abbiamo presentato emendamenti per la politica agricola comune e abbiamo come obiettivo il raggiungere il limite massimo di THC pari allo 0,3% come era prima della Seconda Guerra Mondiale – ha sottolineato Lorenza Romanese, direttore Eiha – ma tanta carne c’è al fuoco, per esempio sulla mancanza di misure europee sul limite di THC negli alimenti, il novel food, il valore ambientale della Canapa, il necessario processo di standardizzazione e l’eliminazione di vecchi tabù”.
“Essere un novel food, quindi un alimento mai consumato in maniera significativa prima del 15 maggio 1997, quindi un cibo nuovo, è una gran disgrazia – ha proseguito la direttrice di Eiha – perché ci vuole una Pre-Market Authorization per la messa sul mercato, un processo di autorizzazione che può durare anche tre anni e che ha un costo di un milione e mezzo di euro. Quante imprese oggi in Europa possono permettersi tutto questo processo che, forse, potrebbe andare a buon fine?”.
“Il 20 gennaio del 2019 tutto cambia quando gli stati membri cambiano in maniera arbitraria il catalogo del novel food: le foglie, i fiori e gli estratti di Canapa sono da considerare tali – ha raccontato Lorenza Romanese – Le piccole e medie imprese resteranno fuori dal mercato per privilegiare invece i grandi consorzi sfortunatamente, spesso, non europei. L’Eiha ha quindi iniziato a raccogliere prove e informazioni che sul consumo della Canapa non c’è nulla di nuovo: fu utilizzata dai papi in epoca medievale, come confermano gli studi di Carlo Erba, abbiamo il primo libro di cucina esistente in cui compaiono i tortellini con la Canapa, in Svezia si consumava la pianta, in Germania si beveva una bevande a base di Canapa. In tutto una trentina di prove che attestano l’abbondante consumo da secoli. Eppure nel 1998 la Commissione Europea mandò una lettera all’Eiha dicendo che foglie, fiori ed estratti non erano novel food: su questa base il settore della Canapa industriale rinacque. Poi il cambio di fronte all’opposto dopo vent’anni, appunto lo scorso 2019, quando hanno etichettato il tutto come novel. Un prodotto alimentare, quello da Canapa, considerato quindi per due decadi come cibo tradizionale, nell’arco di un giorno è stato trasformato in novel food… con tutte le conseguenze del caso”.
Al che, visto che molte piccole e medie imprese non ce la possono fare, Eiha sta procedendo a portare avanti delle Pre-Market Authorization, “stiamo individuando tre o quattro prodotti sui quali ottenere l’autorizzazione”, ha rimarcato il direttore dell’Associazione europea della canapa industriale.
Nodo cruciale sono gli estratti da Canapa, “quando prendiamo un tè o un caffè dovremmo parlare, per esattezza, di estratti di tè o caffè. Però quando si parla di estratti di Canapa vien fuori un polverone – ha sottolineato Lorenza Romanese – Perché siamo così interessati a questo punto? Gli estratti di Canapa riteniamo che abbiano proprietà benefiche per il corpo umano e per la salute dei consumatori europei. il primo pensiero va agli oli di Canapa. Perché il CBD? è il cannabinoide più presente nella Canapa industriale, non è psicotropo, non è intossicante, non è additivo ed è ampiamente tollerato dall’uomo anche in ampie quantità. Nel dicembre 2018 la WHO, World Health Organization, ha detto che il CBD non è droga, quindi consiglia gli stati membri di toglierlo dalle categorie cui oggi è inserito: manca appunto il posizionamento delle nazioni dell’UE. Il voto per decidere è previsto per il 6 o 7 di marzo”.
Le estrazioni arricchite, i cannabinoidi isolati, al pari delle piante geneticamente modificate, devono essere considerate novel food in quanto frutto di processi che non rientrano nella tradizione accertata e queste tecniche in precedenza non erano conosciute e non potevano essere portate avanti.
Ultimo accenno a un’altra contraddizione che Lorenza Romanese ha evidenziato, frutto di un’improvvisa e assurda decisione: il sì dato alla canapa sintetica nelle creme, nella cosmetica e no alla canapa naturale.
Perché?
Per una simile decisione hanno preso il vecchio Single Convention on Narcotic Drugs del 1961 (ne parla il professore Cannazza nella parte finale dei suo intervento pubblicato sopra in questo articolo).
“Per poter competere con i grandi colossi della Canapa mondiale, dal Canada, dagli Usa, dalla Cina, ci occorre la possibilità di poter utilizzare tutte le parti della pianta”, ha concluso il direttore di Eiha.
Giacomo Bulleri, avvocato ed esperto giuridico del settore
Al centro dell’intervento dell’avvocato Giacomo Bulleri (link al suo sito web professionale), le criticità nell’attuazione della Legge 242 sulla Filiera della Canapa soffermandosi sulle problematiche legate al funzionamento della norma e indicando le esigenze del settore da prevedere per uno sviluppo superiore della legislazione.
“La Canapa è diventata una vera e propria questione dopo la sentenza delle sezioni riunite della Cassazione che si è spesa sull’ormai noto fenomeno della Cannabis light – ha iniziato l’avvocato Bulleri – stabilendo che la Cannabis sia uno stupefacente a eccezione delle deroghe previste tassativamente dalla Legge 242. Quindi, è la destinazione di utilizzo che rende lecita la Canapa. Sono quelle sei destinazioni dalla lettera A alla lettera G della legge citata che determinano la liceità dei prodotti. Tutto il resto dovrà essere valutato caso per caso sotto il principio dell’efficacia drogante che nei tribunali ha avuto sorti diverse”.
Comportamenti e decisioni diverse vengono però scelti dai tribunali a seconda dei principi seguiti, “dalla soglia massima di THC allo 0,5% alla valutazione che nega quest’ultima basandosi invece sulla quantità in milligrammi di principio attivo/quantità – ha rimarcato Bulleri – determinando un parametro indistinto e non determinabile. A oggi, ho visto l’esito di tutta questa ondata repressiva seguita alla sentenza della Cassazione, tantissimi procedimenti penali, tantissime analisi di laboratorio, il tutto con altissimi costi tecnici e giuridici… e zero condanne. Assoluzioni, tante richieste di archiviazioni accolte, molti riesami accolti”.
“Gli ambiti della 242 sono quelli leciti, anche io ribadisco che la Canapa industriale è un prodotto agricolo come viene detto dalla normativa comunitaria e una cosa che, purtroppo, vedo anche nella prassi – ha detto l’avvocato – Se l’Università ci ha insegnato la prevalenza del diritto comunitario su quella nazionale e che se una norma dello stato membro risultasse contrastante con quella europea dovrebbe essere disapplicata automaticamente dal giudicante, di fatto tutto questo non accade mai. Il diritto comunitario rimane qualcosa di ignoto, si fanno le interpretazioni più cervellotiche basate su circolari, su qualunque provvedimento senza invece mai prendere in considerazione il diritto comunitario che, al contrario, dovrebbe essere il faro in caso di dubbi”.
Nel Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea la Canapa è definita come prodotto agricolo. “Se si deve parlare ancora di confusione tra stupefacenti e Canapa, la risposta sta nel trattato istitutivo della Comunità Europea, carta inderogabile in cui la Canapa greggia, lavorata e altro, viene considerata prodotto agricolo – ha illustrato Giacomo Bulleri – Nel 2015 il regolamento 220 che ribadisce questo punto qualificando la Canapa come prodotto industriale. Poi il numero 73 e successive modifiche che ha introdotto i limiti di THC poi abbassato agli standard francesi dello 0,2% e che è uno sbarramento convenzionale, una ratio di natura quasi fiscale, un principio per l’erogazione del piano Pac, quindi evitare che una coltura illecita, con livello psicotropo superiore, potesse beneficiare dei finanziamenti europei”.
Un capitolo importante è rappresentato dalla sentenza della Corte di Giustizia Europea 462/01 del 16 gennaio 2003, il più diffusamente conosciuto caso Hammerstein, quando la Svezia provò a limitare le possibilità operative della filiera della Canapa industriale.
In breve, prendendo spunto dalle parole dell’avvocato Bulleri, la Corte di Giustizia Europea ha sottolineato che se, da un lato, l’organizzazione comune del mercato UE non impedisce agli stati membri di applicare norme nazionali che perseguano scopi di interesse generale diversi da quelli portati avanti dall’organizzazione comune, dall’altro la valutazione su eventuali rischi per la salute pubblica derivante dall’uso di stupefacenti è già stata svolta in sede di organizzazione comune dei mercati. Quindi, essendo la canapa un prodotto agricolo e, come tale, rilevante ai fini del mercato comune, “le norme comunitarie di cui sopra ostano ad una normativa nazionale che abbia l’effetto di vietare coltivazione, detenzione e commercializzazione della canapa industriale, ossia proveniente da varietà certificate e con THC – ad oggi – fino allo 0,2%”.
Quindi, da ribadire: la canapa industriale è un prodotto agricolo e le norme comunitarie risultano sovraordinate gerarchicamente al diritto degli stati membri. La Canapa può essere coltivata, trasformata e commercializzata negli ambiti tassativamente elencati per le sole finalità stabilite all’articolo 2 dalla Legge 242/2016. Il che non è traducibile in un divieto tout court sull’uso di tutte le parti della pianta di Canapa visto che a livello comunitario tale proibizione non esiste.
“Tutto chiaro a livello tecnico, il problema è che quando questa filiera si è sviluppata davvero, sicuramente con delle proprie priorità, alle volte anche con atteggiamenti borderline – ha raccontato Bulleri – tutto ciò che era acclarato da vent’anni, ciò che non era novel food diventa tale, ciò che era chiaro per quanto riguardava la differenza tra stupefacenti e non stupefacenti, viene rimesso in discussione e si è tornati a parlare di droga. Tutto questo è quantomeno singolare”.
Occorre dare piena attuazione alla Legge 242, esistono esigenze immediate, urgenti e altre a seguire evitando che equivoci e pregiudizi possano impedire l’esecuzione piena della norma nei settori già previsti. “Prima di prevedere altri settori – ha aggiunto Bulleri – diventa necessario esplicitare la possibilità da parte dell’agricoltore di conferire l’intero raccolto alle aziende impegnate nella trasformazione ed elaborazione industriale, commerciale, artigianale per l’ottenimento dei prodotti previsti dalla 242: su questo punto, sulle destinazioni di utilizzo fissate dalla norma, non ci possono essere dubbi, sequestri o sequestri a prescindere solo perché si tratta di canapa”.
“Poi si deve definire la soglia di THC nel raccolto e nei prodotti finiti – ha rimarcato – Nel primo caso, a mio modestissimo parere e secondo molte procure italiane, è ovvio che se la soglia di questo principio attivo ammessa in campo è quella dello 0,2 – tralasciando per il momento la questione dello 0,6 che è una tolleranza in campo – soglia che permette all’agricoltore di ottenere gli aiuti Pac, limite che consente la circolazione della Canapa industriale nel territorio europeo con proprio codice doganale, credo che non debba esserci bisogno di una legge per stabilire di nuovo il limite massimo di principio attivo per la Canapa raccolta e da trasportare da un punto A a un punto B per fare la trasformazione in prodotti già elencati dalla legge. Non si deve discutere un’altra volta dell’efficacia drogante. Non avrebbe senso. Questi due aspetti, conferimento della biomassa e soglia di THC nel raccolto, sono questioni prettamente agricole”.
Gianpaolo Grassi direttore del CRA, già Crea, sede di Rovigo
“Necessario modificare l’aspetto giuridico derivante dalla legge sugli stupefacenti è fondamentale, una piccola correzione è stata fatta nel 2014. Poi la selezione di varietà adatte ai diversi impieghi, tessile, industriale, alimentare, medico, ludico e ornamentale quest’ultimo aggiunto dalla legge del 2016 – ha esordito il dottore Gianpaolo Grassi – Devono essere attivate aziende produttrici italiane di sementi che ancora oggi mancano e rafforzare la protezione del mercato italiano per dare ancora più ossigeno alla nostra filiera. Questi i primi passi fondamentali da compiere”.
“Siamo partiti da varietà a uso tessile, quelle tradizionali – ha raccontato il direttore del Crea di Rovigo – Le tipologie vanno dalle dioiche quale il fiore femminile, il più prezioso e la pianta maschile che serve più che altro a nutrire le api, poi le monoiche, le più moderne, con presenza di fiore femminile e maschile sulla stessa pianta, queste le varietà più produttive e più standardizzate quindi adatte agli impieghi industriali”.
“Quel che ci siamo trovati ad affrontare fin dall’inizio è la grande variabilità di questa pianta, come è per l’ampia variabilità del peperone. Abbiamo raccolto quanto più materiale possibile: mi vanto di aver messo insieme una buona collezione di alcune centinaia di diverse accessioni (ndR: circa 300) perché è fondamentale avere a disposizione la più ampia variabilità genetica possibile per poi poterle combinare al meglio. Un patrimonio fatto per un terzo di ognuna delle tre tipologie: la industriale, da droga e quelle che definiamo landraces perché le selvatiche vere e proprie non ci sono”.
“Tutta la forza del miglioramento genetico italiano, per quanto riguarda l’applicazione in pieno campo quando c’è il dubbio che ci sia THC, si concentra in 2.300 metri quadri – ha proseguito – Il tutto grazie alla benevolenza di un dirigente del ministero della Salute che, a differenza della solita consuetudine di concedere autorizzazioni biennali, ce l’ha data annuale e fino a ora abbiamo fatto qui le prove. Tutto il resto al chiuso, protetto, isolato. L’unico centro in Italia autorizzato a gestire il miglioramento genetico in campo è il nostro e io sono stato estremamente fortunato a esserci”.
“Dal 1995 si è lavorato sulle dioiche e personalmente ho operato sulle monoiche. Ultimamente ci siamo concentrati sul CBD, il cannabinoide di più grande interesse oggi, analizzato nelle diverse varietà italiane, siamo in una buona posizione, sul 4-5% e ce le invidiano in tutto il mondo”, ha raccontato Grassi.
Un esempio tra i tanti possibili nel “fare” una varietà: quella che il professionista ha definito come diversa soluzione al fallito tentativo-progetto di reintroduzione della canapa a uso tessile puntando sulla Baby Hemp.
“Con un po’ di ritardo sono riuscito a dare un’alternativa a questa tecnica – ha detto Grassi – ovvero, reintrodurre il carattere del fusto giallo nelle piante tradizionali. Nel 2007 ho fatto quindi una combinazioni tra queste due tipologie, la canapa tradizionale per il tessile e la pianta gialla. Questo incrocio ci ha fatto partire con il primo materiale iniziale. Nel 2008 abbiamo incominciato a identificare e a isolare le piante che portavano il recupero del carattere giallo perché al primo incrocio si perde questa caratteristica. Nel 2009 abbiamo ottenuto un inizio promettente della varietà. nel 2010 abbiamo stabilizzato il carattere. Nel 2011 il primo lotto di semi inviati per la registrazione. Quindi un lavoro che è andato dal 2007 al 2011 più altri due anni per la registrazione della nuova varietà”.
Al momento, nella lista delle varietà italiane ci sarebbero otto varietà ma, nei fatti, sono disponibili solo quattro: “Asso, Carmaleonte, Codimono, Eletta Campana. Le altre, per svariati motivi, non vengono moltiplicate. Codimono assegnata a tre aziende, la Carmaleonte a due, dovrebbero iniziare a essere avviate alla moltiplicazione la prossima primavera. Mentre Asso, Vibrante ed Eletta Campana sono in standby, si aspettano i nuovi bandi e quindi le nuove assegnazioni. Cs Carmagnola e Fibranova, hanno problemi nel rinnovo dell’iscrizione: entra in gioco la norma che consente al ministero dell’Agricoltura, su varietà tradizionali delle quali non si sa chi è il costitutore, di agire d’ufficio riassegnando l’iscrizione. Quasi sicuramente, purtroppo, verrà rifatto un’altra volta un ciclo di iscrizioni, quindi si dovrà aspettare un altro anno”.
L’illustrazione del dottor Grassi ha proseguito con varietà più adatte per la produzione dei principi attivi, di fiori e foglie, con concentrazioni di CBD più alte.
Altro ambito per proteggere i diritti del costitutore, per dare l’avvio all’utilizzazione delle varietà, è quello della registrazione al CPVO (link) Community Plant Variety Office/UCVV-Ufficio comunitario delle varietà vegetali (link italiano), organo di tutela per incentivare il lavoro di selezione.
“Quello che ci ha sempre limitato e continua a limitare l’attività di selezione delle varietà deriva dal 309 del 90, il Testo unico in materia di disciplina degli stupefacenti, che all’articolo 26 impone per piante con rilevante contenuto THC il divieto su tutto il territorio dello Stato, salvo il caso in cui il ministero della Sanità autorizzi istituti universitari o laboratori pubblici con fini istituzionali di ricerca alle coltivazioni di dette piante per scopi scientifici, sperimentali, didattici. Significa che viene vietato alle aziende sementiere private di fare il loro lavoro: o trovano il modo con collaborazione o finanziamento dell’attività a un ente pubblico o non possono operare. Una struttura pubblica spesso non ha tutte le facilitazioni, dotazioni per supportare un lavoro intenso e importante di miglioramento genetico, quindi è una forte limitazione per un’azienda, come lo è la più limitata capacità del controllo dei materiali, della riservatezza dei metodi di selezione da parte di una struttura pubblica. Nessuna azienda sementiera vera e propria, tranne un paio, si è occupata mai di selezione di varietà di canapa attraverso quello che il testo 309 consente”.
“Occorrerebbe – ha sottolineato Grassi – una circolare al ministero delle Politiche agricole per poter evidenziare e far valere quanto scritto nell’articolo 2 sulla Liceità della coltivazione, al punto F, della Legge 242 del 2016: coltivazioni dedicate alle attività didattiche e dimostrative nonché di ricerca da parte di istituti pubblici o privati. Questo punto è l’unico appiglio”.
“Non è mai esistito un test che abbia coinvolto i laboratori italiani che fanno l’analisi del THC e che abbia consentito di stabilire che tutti pesavano, misuravano alla stessa materia questo principio attivo – ha detto il ricercatore – Per cui come se esistessero tante unità di misura diverse per quanti laboratori operano: non vi è alcuna certezza che un laboratorio misura allo stesso modo di un altro. Non c’è uno standard unico, non si sono mai confrontati, non hanno mai la stessa metodica. Quindi, quando si stabilisce così fondamentale come lo 0,2% di THC massimo di concentrazione nella materia prima, se non lo misuro con il parametro corretto e univoco per tutti, è qualcosa che non ha senso: dovrei avere i laboratori tutti tarati allo stesso modo”.
“Come da documento ufficiale di un organismo delle Nazioni Unite – ha concluso Gianpaolo Grassi – a pagina 20 si trova una formula banale ma accettata a tutti i livelli scientifici: il rapporto tra THC e CBD sta a un coefficiente/parametro costante che vale in qualsiasi condizione si trovi la pianta, sia che si consideri foglia o il fiore, sia che un laboratorio sovrastimi la concentrazione o sia il più preciso possibile. Questo valore non cambia. Se invertissimo l’ordine degli addendi con CBD sopra e THC sotto, la formula dà un numero molto più facile da utilizzare. Cioè, esiste un rapporto genetico obbligato, inviolabile nei materiali dalle varietà stabilizzate e uniformi, un numero che vale circa 28 o 30: per ogni molecola di THC ne ho 30 di CBD. Quindi, se al posto di quello 0,2% così mal misurato e senza uno standard univoco di rilevazione, oltre che non confrontabile, usassimo quest’altra scala stabilendo un valore superiore a 25 del rapporto tra CBD e THC, ci toglieremmo da qualsiasi pasticcio possibile”.
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