Massimo Conte (La Città della Canapa): “Filiera della canapa senza futuro se non guarda al mercato”
Piazza pulita dai facili entusiasmi. Per dare un futuro alla canapicoltura occorre crearle un mercato, uno sbocco commerciale certo, trovare proposte e forme adatte alla vendita. La situazione oggi per la filiera della canapa non è per nulla rosea neppure riguardo le rotte di sviluppo che si prospettano. Lo afferma Massimo Guido Conte, responsabile della Federazione La Città della Canapa (gruppo Facebook) che è un insieme di operatori economici, “a cominciare dai consumatori che sono i primi da considerare perché devono trovare una ragione per l’acquisto di un prodotto”, sottolinea lo stesso Conte.
Nel gruppo ci sono naturalmente agricoltori, formatori, imprese dell’edilizia e del settore alimentare, solo per citarne alcuni.
La federazione riunisce i “Borghi della Canapa”, il primo è quello di Monsano (Ancona), nome altamente evocativo, presieduto da Fabio Iencenella (gruppo Facebook del Borgo), nato con l’istituzione delle prima De.Co. per prodotti a base di canapa, quindi la Piadina alla canapa De.Co. (farina 1, senza strutto, con olio extravergine di Monsano e farina di semi di Canapa di Monsano) e il Carciofo Violetto di Jesi De.Co. di Monsano (sottolio Evo alla Canapa di Monsano, declinato anche nella versione paté).
Il Borgo della Canapa di Monsano raggruppa anche quello dei Cordai e dei Cartai (pagina Facebook), quest’ulltimo guidato da Luciano Di Pietro, compagine che si avvale dell’esperienza di un abile agricoltore e produttore artigianale di carta da canapa, Luigi Mecella. Altri borghi stanno per prendere vita anche in altre regioni, come in Veneto.
Questa rete di associazioni vuole reintrodurre la coltivazione della canapa e il suo impiego sia tradizionale che profilato dalla ricerca scientifica nell’edilizia, nel settore alimentare, nella nutraceutica e nella bioingegneria, solo per fare alcuni esempi.
Si accennava prima a una visione scettica sulla rotta o sulle vie che la nascente filiera della canapa sembra aver intrapreso.
Su questo Massimo Guido Conte è molto netto nel dare il quadro più attuale da lui delineato: “La vendita di semi per la canapicoltura aumenta, ma gli acquirenti cambiano di continuo. È un brutto segno. Conosco un grosso distributore di semi di canapa, ogni anno aumenta del 30 per cento le vendite ma non ha mai gli stessi clienti. Credo si capisca bene cosa comporta questo dato. La crescita rapida, spesso dettata da entusiasmo ma anche da ignoranza, finirà prima o poi e finirà di brutto. Meglio una crescita più lenta, costante, consapevole, che è crescita reale di un settore. Noi quest’anno abbiamo distribuito 5 quintali di semi: solo uno di coloro che ha fatto l’ordine era conosciuto e socio, gli altri erano tutte new entry. È una conferma di quanto raccontato prima”.
Canapa Oggi (CO): Come vi siete fatti l’idea che la strategia di settore andrebbe cambiata?
“La nostra posizione nasce da considerazioni di sufficiente scetticismo. Le ho espresse in più occasioni, anche in commissione Agricoltura della Camera tre anni fa quando dissi che ‘il danno che hanno fatto le politiche nazionali alla Canapa in 60 anni di ostracismo, è nulla in confronto a quello che state facendo perché rischiate di seppellirla per sempre’. L’attuale legge nazionale sulla filiera della canapa ci lascia freddi e distaccati. Per noi non è cambiato nulla. Un Paese ideale è quello dove si può fare tutto tranne quanto viene vietato per legge. La norma comunque adesso c’è, ne teniamo conto, ma sostanzialmente non cambia nulla: per conto nostro sarebbe stato meglio fare di più affinché la canapicoltura fosse assimilata a qualsiasi altra coltura, da cui la coltura indoor, la coltura in piccoli appezzamenti, tutta una serie di casi in modo da lasciare una scelta più libera all’agricoltore per la sua attività”.
(CO): Secondo il suo e vostro parere c’è stato un errore strategico nel disegnare la norma nazionale sulla filiera della canapa?
Massimo Guido Conte (MGC): “C’è da considerare che l’agricoltura, obiettivo principale della nuova legge, è sì il primo anello della filiera, ma non è quello fondamentale. Il mercato, questo sì che è vitale. Se vado dall’agricoltore e questo mi dice, ‘si pianto la canapa, volentieri, ma poi a chi la vendo?’. Se vado all’industria, questa mi risponderà, ‘sì, bello, ma dove la prendo la canapa?’. A oggi la situazione in Italia è questa. Certi consorzi ruotano intorno a un solo produttore forte, gli altri componenti cambiano, sopravvivono, mutano continuamente. Poi esistono le realtà strettamente locali, ma non fanno volume produttivo. Non siamo per nulla alla filiera corta, sono piccole catene di trasformazione con pochi prodotti finali che, alla lunga, non possono soddisfare nessuno. Non è il nostro modo di intendere lo sviluppo del settore”.
(CO): Faccia capire bene come analizzate la situazione a oggi.
(MGC): “Mi avvicinai alla canapa diversi anni fa da responsabile di un’associazione ambientalista, grazie a quanto mi disse Antonio Trionfi Honorati, grande esperto e coltivatore di canapa – racconta Conte – Ci fu un lungo processo durante il quale fondammo i Gre delle Marche, Gruppi di Ricerca Ecologica, per la reintroduzione della canapa nell’agricoltura di questa regione: lo strumento non si rivelò il migliore, stavamo monopolizzando l’azione dei Gre. Così trasbordammo in una federazione di agricoltori perché credevamo che la chiave di volta fosse appunto l’agricoltura. Invece quest’ultima è una conseguenza di una situazione che si crea a monte. Avere oggi 2.000 ettari a canapa su su 400/600 aziende, fa una media di 2,5 ettari a impresa: vogliamo fare canapa con l’orto di zio peppino? L’agricoltura è ben altra cosa. L’agricoltura italiana ha una media di circa 16 ettari e viene già considerata la cenerentola d’Europa. Figuriamoci se nello specifico della canapa andiamo a parlare di dimensioni ben più ridotte. Facciamo ridere”.
(CO): In una condizione del genere, come avete portato avanti il vostro lavoro e quali proposte utili per il mercato?
(MGC): “Abbiamo avviato programmi di rete con grossissime difficoltà. Stiamo uscendo con due prodotti, uno snack e una barretta energetica sostitutiva del pasto venduta in farmacia. Abbiamo già cinque contratti con l’estero. In Italia bisognerà aspettare due mesi, la presenteremo a maggio durante la fiera internazionale IndicaSativa Trade di Bologna. Si parla di 100.000 barrette prodotte al giorno, ma non produrremo ogni giorno, da distribuire in punti vendita particolari. Quindi, macchine distributrici automatiche, anche in tabaccherie che sono circa 64.000 in Italia: a 24 pezzi al mese ed essendo pessimisti, per solo il 10 per cento delle tabaccherie (6400), viene comunque fuori un bel numero. Tutto questo con 9/11 grammi di decorticato fa una massa tale di prodotto che, purtroppo, il mercato italiano oggi non mi può dare perché loro sono tutti innamorati del loro orticello, del loro prodotto a volte buono, a volte immangiabile”.
(CO): Ritratta così sembra una situazione paralizzata. Cosa c’è oggi che non funziona nelle proposte di prodotto finale a base di canapa?
(MGC): “Tutto inizia da politiche sbagliate. Continuano a fare farine di canapa, ma non puoi venderla alla casalinga perché poi non la ricompra. Perché se la devi miscelare al dieci per cento, in alcuni casi al 5 per cento, con 500 grammi fai cinque chili di impasto, stiamo parlando di otto-nove chili di pizza per un mese. Quale famiglia ne fa tanta? Nessuna! Molto prodotto andrà perso, nonostante la spesa. Non la compreranno più. Prepariamo invece delle farine premiscelate con quella di frumento tipo 0, tipo 1 e percentuale di farina di canapa che ogni singolo produttore deciderà basandosi sulla sua proposta di prodotto. Poi il mercato deciderà e sceglierà la migliore. In questo modo, la signora spenderà solo 3 euro per 250 grammi d’impasto, la userà e, se le piacerà, continuerà a comprarla”.
(CO): Quindi il suo richiamo primario è alla praticità, al confronto col mercato per lanciarsi con prodotti adatti alle tasche, al pieno utilizzo. Cos’altro ancora non va nel mondo della canapa?
(MGC): “Non va l’attuale formula dell’olio di semi di canapa, che poi è improprio chiamarlo in questo modo visto che esistono degli standard stabiliti per poter chiamare olio un prodotto, a cominciare da caratteristiche precise come il grado di acidità. E poi… prenderlo un cucchiaino la mattina? E che è una medicina? Facciamoci invece delle maionese, delle salse. Ma per fare questo passo ho bisogno di un fornitore che per 365 giorni all’anno mi dia tutto uno standard di qualità e una costanza di prodotto e di prezzo. Non si può fare un continuo e spasmodico rastrellamento tra diversi produttori a diverse distanze, con differenti capacità produttive, diverse richieste di prezzo e differenti tipologie di semi. È assurdo”.
(CO): Siamo quindi ancora ben lontani dal modello di impresa e di mercato con prospettive di successo?
(MGC): “Stiamo parlando e tracciando il quadro di aziende e non di canapari che fanno tre mercatini, vendono le cinquanta boccettine d’olio e sono contenti. Aziende che facevano questo tipo di attività limitata le abbiamo viste, lasciavano sei bottigliette di olio nei negozi, vendute subito, ma a fornitura maggiore sono dovuti tornare a riprendersele: il prodotto costa un botto, irrancidisce subito, con quella formula non funziona”.
(CO): Come si fa a uscirne? Come far crescere la filiera?
(MGC): “Si deve ricominciare dal concetto di praticità. Un esempio di avvio. Compriamo prodotto all’estero, dall’Europa, che mi dà un seme certificato, con costo al 60 per cento in meno circa rispetto a quello che trovo qui sul mercato. Questo ci garantirebbe di partire con le iniziative. L’anno successivo si va alle aziende agrarie nostrane e serie, quelle da 300 o 400 ettari. A queste diciamo: ‘È un anno che paghiamo ai tedeschi questi cifra, perché non mettete voi canapa a rotazione su 40 o 50 ettari? Fatevi i conti, questi sono i prezzi che siamo disposti a pagare, ma essendo un prodotto italiano vi riconosceremmo anche qualcosa in più, non tanto da far sballare il conto economico. Se vi interessa chiamateci’. Sicuramente queste aziende agrarie accetterebbero perché penserebbero al granturco pagato un terzo del prezzo, senza considerare il mais e il grano tenero. Allora sì che partirebbe sul serio la produzione di massa per la canapa, quindi anche l’utilizzo produttivo dello stelo”.
(CO): Sullo stelo e sulla bioedilizia esistono già notevoli esempi e idee di rilievo messe in atto da alcune aziende.
(MGC): “Sull’edilizia c’è una bella esperienza, quella di Max Cantis e CMF Greentech. Lavorano il canapulo conglomerato grazie a un collante cento per cento compostabile, usano gli sfalci dell’agricoltura. Il problema è sempre il frazionamento estremo della fornitura di canapa oggi in Italia. Con mercato attivato e funzionante per la canapa, quindi con una conseguente produzione di massa, intorno a un’azienda si assicurerebbe una condizione ideale: un raggio di 200, 250 chilometri di territorio che potrebbe fornire materiale, invece di andare a cercarlo nelle zone più disparate, anche lontane, nella piena precarietà per quanto riguarda il prosieguo dell’attività. Nell’incertezza oggi si deve compensare utilizzando lo sfalcio di altre produzioni agricole”.
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