Al governo cinese piace il business legato alla filiera della canapa
Canapa Oggi ne ha già scritto lo scorso maggio anticipando quanto raccontato dai canapicoltori australiani sull’evoluzione della produzione di canapa in Cina (da leggere all’articolo “Attenti alla marea di canapa cinese…“). Al governo cinese piace il business legato alla filiera della canapa, quindi per il governo di Pechino si avvicina il momento di porre regole certe per la produzione di canapa industriale a basso tenore di THC.
In ballo un ricchissimo mercato, come evidenziato da Il Fatto Quotidiano che cita un’inchiesta del South China Morning Post e la World Intellectual Property Organisation.
Un giro d’affari colossale a livello mondiale, settore che vede molto avanti il Canada capace di proporre prodotti per la nutrizione e per gli integratori tanto richiesti in Sud Est Asiatico dove la “guerra” fra concorrenti sarà molto accesa, sempre sulla cannabis legale con tenore di THC entro e non oltre lo 0,3 per cento.
Confronto commerciale duro specialmente in Corea del Sud, per non parlare di Giappone, Taiwan, Thailandia e persino la stessa Cina (articolo “La Corea del Sud ha fame di canapa e il Canada ne approfitta alla grande“).
Tempi molto brevi per la “lievitazione” della produzione di canapa cinese se si pensa che la valutazione per i prossimi cinque anni dà il giro d’affari nella Nazione di Pechino a circa 15 miliardi di dollari.
Già adesso la Cina è fra i più grandi produttori di canapa, affermazione possibile nonostante la difficoltà di avere dati certi fra coltivazioni legali e fuorilegge (peraltro fortemente punite dalle autorità di Pechino: rischio di essere condannati a morte se beccati con oltre 5 chili di foglie di marijuana lavorate, 10 chili di resina o 150 chili di foglie fresche).
A oggi è possibile coltivare secondo la norma ottenendo un’apposita licenza in sole due zone ai due capi opposti dell’immensa nazione dell’ex Celeste Impero. A Nord Est, confinante con la Russia, nella regione dello Heilongjiang (黑龍江省, 黑龙江省, Hēilóngjiāng Shěng, traducibile come “Fiume del Dragone Nero” – superficie di 460.000 km²) che ha approvato questa misura nel 2016. È invece in vigore dal 2003 nella provincia meridionale dello Yunnan (雲南, 云南, Yúnnán, traducibile in “A Sud delle nuvole” – superficie di 390.100 km²) confinante con Tibet, Laos e Vietnam.
Le due regioni insieme rappresentano già numericamente, secondo i dati dell’Ufficio di Statistica, quasi la metà della produzione di canapa commerciabile legalmente nel mondo.
Come sottolineato dalle testate e dagli istituti citati, la canapa rende più di 10.000 yuan (l’equivalente di 1.500 dollari) per ettaro ed essendo quasi immune all’attacco di parassiti, permette agli agricoltori di evitare l’utilizzo di pesticidi che incidono pesantemente sui bilanci aziendali.
In questo modo molti coltivatori cinesi sono passati dal lino e dal mais alla semina di canapa.
Come riportato da Il Fatto, la Wipo, World Intellectual Property Organisation ha segnalato che esistono oggi oltre 600 i brevetti “made in China” sulla cannabis, molti ideati per il mercato internazionale anticipando spesso o andando in parallelo con le compagnie occidentali che si occupano di canapa.
In più si moltiplicano i contatti e le possibili partecipazioni societarie con realtà degli Stati Uniti, di Israele e del Canada, oltre che Giappone ed Europa: nel secondo dei primi tre paesi si è anche molto avanti con la ricerca scientifica e clinica riguardante la canapa terapeutica, con applicazioni per combattere importanti malattie e affezioni.
In quest’ambito viene citato il progetto della “Nuova via della Seta” corrispondente all’acronimo inglese OBOR, one belt, one road, che vorrebbe costituire un insieme di realtà mondiali, anche e non solo della canapa, strettamente interconnesse, infrastrutture di trasporto e logistica. Fu annunciata dal presidente cinese Xi Jinping a settembre del 2013 per la via di interconnessione terrestre e aottobre dello stesso anno per la via marittima.
Il tutto connesso alla proposta di Banca asiatica d’investimento per le infrastrutture, la AIIB, con capitale di 100 miliardi di dollari USA (Cina come parte leader con 29,8 miliardi): ci sono dentro anche Russia, India, nazioni dell’Oceania e, per quanto può, anche l’Italia (2,5 miliardi).
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