Alimenti italiani da semi di Canapa e disinformazione: epidemia virulenta nel giornalismo italiano? Occorre un antibiotico che riporti professionalità
Incredibile. Lievita sempre di più un fenomeno – questo sì – stupefacente: l’informazione pasticciata sulla Canapa. Il primo pensiero è che alcuni colleghi giornalisti mettano insieme le più disparate ma incompatibili informazioni per scrivere articoli altisonanti. La tendenza più nuova? Ecco i due elementi di un binomio che oggi sta definendo un nuovo, negativo capitolo: alimenti italiani da semi di Canapa e disinformazione.
Si pasticcia spesso creando allarme tra i lettori. Si mescolano dati da paesi diversi con regolamentazioni e situazioni di mercato molto differenti, si mettono insieme argomenti con fantasia, senza seguire un filo logico e congruo. Soprattutto, questa mescolanza viene sfumata senza contestualizzare, facendo sembrare tutto frutto di un’unica realtà. Ne viene fuori un unico ritratto preoccupante. Ma in Italia non esiste.
È come voler giocare a Scala 40 combinando carte non riunibili in un unico mazzo, quelle francesi insieme alle carte siciliane per la Scopa.
Leggendo certi servizi, la prima impressione che si ottiene è che i vertici delle redazioni non controllino più. Forse non chiedono più le necessarie verifiche e le dovute giustificazioni sulla comparabilità di dati e argomenti utilizzati per un articolo.
Un sospetto alternativo? Forse oggi si scrive su qualsiasi cosa senza studiare e formarsi prima. Non ci si prepara in via preventiva, sia dal punto di vista legislativo, che sulla natura vera di ciò che sarà oggetto del proprio articolo.
Ulteriore ipotesi? Forse c’è volontà di colpire un obiettivo anche a rischio di fare pessime figure grazie a contenuti mal assemblati. Questi articoli potranno sembrare sensazionalistici solo ai profani. Purtroppo, le testate giornalistiche che agiscono così rimangono fortemente danneggiate agli occhi di lettori minimamente consapevoli e al corrente dei meccanismi reali che sono al centro di detti servizi pasticciati.
In questo gioco aberrante ci sono finite testate di primaria importanza e i loro contenuti, fatti di argomenti mal costruiti con elementi non comparabili, sono stati riportati anche da agenzie stampa o da altre edizioni.
Una sorta di Catena di Sant’Antonio dai contenuti incredibili: somiglia al dilagare dell’ennesima falsa notizia/fake news condivisa migliaia di volte da pigri utenti dei social network.
Per una panoramica veritiera sul settore, basta dare un’occhiata alle pagine che contengono gli articoli di Canapa Oggi sul settore Food.
Alimenti italiani da semi di Canapa e disinformazione: lo stranissimo e incredibile caso del Corriere della Sera
Il primo articolo che viene in mente è quello intitolato “Mangiare dolci alla cannabis è più pericoloso che fumarla”, con sommario “Disturbi psichici e al cuore più frequenti in chi la ingerisce. Le incognite sui prodotti che ora vengono venduti in 713 negozi in tutta Italia”… articolo del Corriere della Sera pubblicato il 14 aprile 2019, sia online che sul cartaceo dove dominava in una pagina intera.
L’hanno pubblicato. Sul serio. L’hanno fatto con quella premessa.
Ma i prodotti alimentari italiani sono fatti grazie a semi di canapa e loro derivati, senza elementi psicotropi, in questo caso il THC delta-9-tetraidrocannabinolo. Eppure, viene concettualmente accostato un dolce alla canapa alla marijuana illegale inalata grazie a uno spinello… o per vaporizzazione (?).
Come immagine d’apertura a corredo di questo articolo, visto che si parla di prodotti alimentari accanto al possibile “sballo”, che foto hanno messo? Uno scatto fotografico che ritrae alcuni cannoli siciliani con il cartello di vendita recitante “Cannoli con semi di canapa”.
Come si fa ad accostare due cose che più lontane e incompatibili di così non possono essere?
Nell’articolo in questione il gioco l’hanno portato avanti citando una ricerca fatta in Colorado (Stati Uniti) dove la Cannabis è legalizzata da tempo, uno studio pubblicato su Annals of Internal Medicine (link per leggerlo).
La ricerca si basa su dati raccolti in un periodo di tempo compreso tra il primo gennaio 2012 e il 31 dicembre 2016. Numeri che riguardano “adulti con visite ED a classificazione internazionale delle malattie legate alla cannabis”.
Quindi, sono risultati di una ricerca statunitense, scaturiti da una realtà dove sono ammessi alimenti con principio psicotropo. Ma tutto questo che c’entra con i prodotti alimentari italiani da Canapa?
Tornando alla struttura della ricerca proveniente dal Colorado, in circa cinque anni sono state registrate 9.973 visite con un codice ICD-9-CM o ICD-10-CM per l’uso di cannabis. Queste sigle stanno per “International Classification of Diseases – Clinical Modification. Sistema internazionale di classificazione delle malattie, dei traumatismi, degli interventi chirurgici e delle procedure diagnostiche e terapeutiche”.
Di queste quasi diecimila visite, 2.567 (25,7%) erano almeno parzialmente attribuibili alla cannabis e 238 di queste ultime (il 9,3%) erano legate alla cannabis commestibile.
Tali numeri danno già un primo quadro sulle proporzioni evidenziate nella ricerca statunitense. Continuiamo con i dati di questo studio.
Le visite attribuibili alla cannabis da inalare erano più probabili per la sindrome da iperemesi dei cannabinoidi (18,0% vs 8,4%) e le visite attribuibili alla cannabis commestibile erano più probabilmente dovute a sintomi psichiatrici acuti (18,0% vs 10,9%), intossicazione (48% vs 28%) e sintomi cardiovascolari (8,0% vs. 3,1%).
Conclusione sugli alimenti distribuiti in Colorado e con proprietà psicotrope: i prodotti commestibili rappresentavano il 10,7% delle visite attribuibili alla cannabis tra il 2014 e il 2016, ma rappresentavano solo lo 0,32% delle vendite totali di cannabis in Colorado (in chilogrammi di tetraidrocannabinolo) durante quel periodo. Le visite attribuibili alla cannabis inalata sono più frequenti di quelle attribuibili alla cannabis commestibile, sebbene quest’ultima sia associata a visite psichiatriche più acute ea più visite ED del previsto.
Alla luce di quanto letto nella ricerca americana, che cosa c’entra la realtà italiana? Perché fare quell’articolo con quel titolo “Mangiare dolci alla cannabis è più pericoloso che fumarla” senza contestualizzarlo?
Perché non scrivere apertamente in quell’articolo che è una situazione particolare legata agli Stati Uniti, NON replicabile in Italia dove gli alimenti sono da semi di canapa, oltretutto da varietà certificate a livello europeo, senza contenuto psicotropo (al massimo non apprezzabile) e regolamentati dalla Legge italiana 242 del 2016.
Che strano.
Eppure, in questo modo, si mettono in allarme i lettori italiani. È una distorsione dell’informazione ben fotografata anche dai componenti dell’Associazione CSI Canapa Sativa Italia che raggruppa attori di tutta la filiera della Canapa regolamentata dalla già citata legge. E di questa aberrazione comunicativa non ne ha parlato solo CSI.
Lapalissiano poi sottolineare che inalando marijuana, l’assimilazione è rapida, va subito in circolo attraverso le mucose, i sintomi si avvertono in fretta e il soggetto si ferma, mentre con i dolcetti e generi alimentari (in Colorado) gli elementi psicotropi devono prima passare per il canale digestivo per poi riuscire a entrare in circolo, quindi ci vuole più tempo durante il quale il soggetto continua a non avvertire sintomi, continua a mangiare e poi… di colpo arrivano tutti assieme per accumulo di quanto ingerito.
La domanda, però,rimane sempre la stessa: che c’entra con il mercato italiano di alimenti da Canapa?
Eppure chi ha ideato l’articolo del Corriere, nella parte finale è riuscito a scrivere: “Cucinare i cibi più svariati con prodotti che contengono THC sta diventando molto di moda. Non credo sia una buona idea e può essere molto pericoloso…”.
Alimenti italiani da semi di Canapa e disinformazione: gli altri casi oltre al Corriere
Inoltre, l’articolo del Corriere è stato richiamato anche dall’agenzia stampa Agi che ne ha amplificato la portata, agenzia stampa che è fatta da professionisti e non novellini.
Titolo: “C’è un nuovo studio sugli effetti nocivi dei prodotti a base di cannabis”.
I dubbi inseriti nel servizio dell’Agi sono gli stessi dell’articolo del Corriere visto che ne è una rivisitazione/richiamo. Si centra molto sullo studio statunitense, poi però si sfuma tra la situazione in Colorado e quella italiana, non viene sottolineato che nel Bel Paese non c’è un solo pasticcino con componente psicotropa.
Non si fa capire che i risultati di quella ricerca fotografano una situazione che non può nemmeno essere paragonata a quella italiana. Non si fa menzione che nelle farine, oli, pasta, dolci italiani si fa solo uso di semi di Canapa e loro derivati, quindi niente principio psicotropo. Quindi, ancora, non c’è nulla di assimilabile a quei prodotti statunitensi che hanno dato problemi (li hanno causati nelle minime percentuali riportate nello studio americano).
Tocco finale del pezzo AGI tanto per dare “sicurezza” al lettore italiano (ripreso dal Corriere): Lo sapevate per esempio che il THC non è distribuito allo stesso modo in un biscotto o in un pasticcino? Può perciò capitare “di assumere tutta quella che c’è con un morso solo (è soltanto una curiosità, ma la dice lunga su quanta poca uniformità ci sia in queste preparazioni)”.
Sempre lo stesso articolo del Corriere è stato riportato anche da Huffington Post: stessi contenuti sulla ricerca statunitense, il pezzo è molto incentrato su questa, ma non manca l’equivoco o il “non detto” o detto male sulla ben diversa situazione italiana. La frase finale dell’articolo? “A ogni modo, va anche specificato che nei prodotti dolciari contenenti cannabis che si vendono degli Stati Uniti c’è certamente più THC che in quelli venduti nel nostro Paese”.
Dopo quanto già scritto sul NON contenuto di THC nei prodotti alimentari italiani da Canapa, inutile commentare questa frase.
Distorsioni più sfumate, ma sempre presenti, anche in un articolo di Dissapore che riprende diversi passaggi del servizio pubblicato dal Corriere della Sera, con la citazione della solita ricerca dal Colorado pubblicata su Annals of Internal Medicine.
Anche se subito ogni speranza crolla quando già nella prima parte dell’articolo è possibile leggere: “Se siamo soliti pensare che, in realtà, quella che portiamo sulle nostre tavole, anche sotto forma di piadina o di tisana, sia più sicura di quella “aspirata”, ecco che un recente studio ci pone il dubbio”.
Su Il Giornale si centra tutto sulla ricerca dal Colorado. Il titolo… “Cannabis: mangiarla non fa meno male che fumarla“. Data, 16 aprile 2019.
Chi ha scritto il pezzo e nessuno in quella redazione, dopo aver scelto quel titolo, ha minimamente pensato di fare un distinguo tra la situazione di quello Stato Usa e la situazione italiana che è radicalmente diversa.
Sembra proprio che nessuno si sia preoccupato di tutelare le aziende italiane che lavorano nel settore alimentare legato alla Canapa utilizzando i semi di questa pianta, imprese capaci di produrre ottima pasta, olio, crostate, pane, pasta per pizza, creme spalmabili, tavolette di cioccolato e tantissimo altro. Tutto senza che possa provocare alcuna alterazione mentale, semmai benessere per le proprietà antiossidanti, benefiche, nutrizionali della Canapa.
Comunque, cercando un po’ di originalità tra gli errori “giornalistici” esistono altre varianti, anche nei termini usati in maniera confusa, come in un articolo pubblicato su TorinOggi, dal titolo “Olio CBD: aumenta l’uso nella preparazione degli alimenti”. Alcuni passaggi allarmerebbero tutti i meno informati e i novelli dell’argomento canapa.
Esempi presi da detto articolo:
- “Dal dicembre 2016, con la legge 242, il consumo di cannabis light è diventato legale. Ovviamente è necessario rispettare alcuni parametri, primo fra tutti l’equilibrio tra le componenti di questo famoso cannabinoide”;
- Dopo aver scritto di CBD e sulla pericolosità del THC, la frase-ciliegina sulla torta, “Intanto, però, il consumo di marijuana legale è aumentato vertiginosamente, persino in cucina. Nei negozi specializzati è possibile trovare pasta, pane e persino dolci con questo speciale ingrediente che può essere acquistato anche sotto forma di olio”;
- Descrivendo l’olio di Canapa o al CBD (c’è un chiaro equivoco nell’articolo), “Non pensate alle bottiglie di olio extravergine di oliva nostrano, ovviamente: si tratta di un estratto che si dosa per mezzo di un contagocce. E la moda delle ricette con olio CBD ormai impazza sul web, e non solo”;
- Sull’olio al CBD, “Ma come è meglio utilizzare questo peculiare olio che pare rinforzi il sistema immunitario e abbia effetti antiossidanti? Per legge tale prodotto viene venduto per uso tecnico ma in realtà viene generalmente assunto in gocce per via orale”.
Su questo articolo di TorinOggi è bene non evidenziare altro.
Alimenti italiani da semi di Canapa e disinformazione: c’è anche chi va controtendenza, scrive bene e fa informazione
Chi si salva? È Vanity Fair che in un articolo datato 14 aprile 2019 a firma Monica Coviello, non mescola elementi che nulla hanno a che fare tra di loro, non mette insieme mercati che non hanno punti in comune sull’offerta di prodotto (quello in Colorado e l’altro italiano). Mette nero su bianco le risposte dell’intervistato, Vincenzo Di Marzo, direttore di ricerca presso l’Istituto di Chimica Biomolecolare del Consiglio Nazionale delle Ricerche (ICB-CNR).
In questo caso la giornalista pone ben in evidenza l’utilizzazione dei semi e dei loro sottoprodotti per confezionare i prodotti alimentari italiani. Lo stesso intervistato mette in chiaro un punto che dà un quadro chiaro e messo nero su bianco dalla giornalista. Oltretutto, fa degli opportuni distinguo separando i prodotti alimentari italici dalla marijuana-spinello: «Bisogna, quindi, prima di tutto chiarire se si tratta di prodotti gastronomici veri e propri, in cui vengono spesso utilizzate parti della pianta a bassissimo, quasi nullo, contenuto di THC (come i semi o le fibre), o invece di alimenti a cui venga aggiunto un preparato di infiorescenze di cannabis, in modo però da non superare lo 0,6% di THC. Si tenga presente che, in uno spinello, la quantità di THC varia dal 7 al 13%».
Nell’articolo di Vanity Fair si parla solo di Canapa industriale, delle proprietà nutraceutiche, delle possibilità oltre il settore alimentare accennando ai benefici anche in campo terapeutico (che è altro prodotto). Su quest’ultima testata, per farla breve, si fa informazione senza mescolare carte diverse, cosa invece fatta puntualmente (inconsapevolmente o meno?) da altre testate.
A questo punto, dopo questa lunga ma parziale panoramica, nasce l’esigenza di invitare l’Ordine dei Giornalisti, Stampa Romana e gli organismi preposti alla professione giornalistica, per prime le organizzazioni regionali dell’Ordine professionale, a predisporre opportuni corsi d’aggiornamento riguardanti il mondo della Canapa, l’utilizzo consentito in Italia iniziando proprio dai prodotti alimentari.
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